14 Maggio – Essere e Apparire

ipocrisia1Eccoci qui per la sesta volta ospiti alla biblioteca “A. Tiraboschi” di Bergamo ad incontrare vecchi amici e nuovi curiosi praticanti filosofi. Due serate alle prese con grossi temi: il primo, caro a tanta filosofia di ogni tempo, Essere e Apparire, l’altro enormemente ampliato dall’avvento delle nuove tecnologie, Reale e Virtuale.

Nel primo incontro abbiamo proposto una lettura condivisa tratta dalle storie di Nasruddin : un personaggio storico, ma più che altro un mito, eroe di tanti racconti divertenti e assurdi dell’antica Anatolia. Cambiando il format abituale, abbiamo poi formulato alcune domande e lasciato un po’ di tempo ai partecipanti per scrivere le risposte, ecco di seguito i quesiti:

  1. Chi siamo per gli altri, noi stessi o il nostro aspetto?
  2. Arriviamo mai a conoscere il nostro “vero essere”? Conosciamo e apprezziamo il “vero essere” degli altri? 
  3. L’apparenza rivela o nasconde la realtà e chi siamo veramente?

Le domande erano certamente complesse e altrettanto variegati gli interventi dei partecipanti, ecco in sintesi:

  • L’essere ha bisogno di  una “forma” per apparire
  • Molto dipende da chi sono gli altri, la conoscenza o meno dell’altro cambia il nostro atteggiamento
  • L’essere è sempre in divenire, a prescindere dall’apparenza la quale dissimula la realtà, la nasconde. Dipende da come vogliamo mostrarci
  • Se siamo “puliti” l’apparenza rivela l’essere, ma noi siamo più di quanto appariamo, il guaio è non avere il tempo per conoscerci veramente. La ricerca dell’essere è difficile
  • Ci sono due momenti: l’aspetto e poi, quando c’è frequenza e condivisione, il mostrare sé stessi, ma la conoscenza avviene quando c’è equilibrio
  • Il primo momento è informativo/estetico ed è rivelato da come mi comporto, il secondo momento dipende dagli strumenti che gli altri hanno per conoscermi
  • L’aspetto è solo una parte di noi e la conoscenza di noi stessi e degli altri è senza fine ed è sempre un punto di vista parziale
  • Fondamentale è il linguaggio. Siamo costretti a conoscere l’altro, noi siamo relazione, scambio.
  • Il nostro essere dipende da quale obiettivo rappresentiamo per gli altri, all’apparenza dovrebbe corrispondere l’interiorità dell’individuo
  • L’apparenza non è solo il vestito, noi proiettiamo una parte  di noi, cosa voglio vedere nell’altro? Quale immagine l’altro mi rimanda?
  • Non devo pormi il problema di come gli altri mi vedono, anche se è un problema farsi accettare per come si è
  • La parola ci limita, non esprime tutto ciò che siamo
  • E’ importante il contesto, il luogo dove ci si mostra
  • Bisogna essere onesti con se stessi e rispettosi del contesto, in modo particolare se c’è conflitto
  • Ci si può adattare agli altri rimanendo sé stessi, senza sminuirci
  • Le convenzioni sono tante, necessario il compromesso, la relazione influenza il modo di comportarsi
  • Abbiamo categorie spesso inconsapevoli e l’apparire trasmette molte cose

Già da questi interventi vengono alla luce alcuni temi di fondo:

  • l’identità: c’è qualcosa oltre il nostro aspetto  che rivela quello che siamo? Quanto conta l’abbigliamento? Ci si deve fidare dell’aspetto?
  • il riconoscimento: perché desideriamo essere identificati e riconosciuti? Forse il riconoscimento conferma la nostra esistenza e il nostro valore?
  • la differenza tra realtà e apparenza: per qualcuno evidente, per altri no

Soprattutto abbiamo constatato la natura paradossale dell’apparenza: ogni giorno osserviamo quant’è importante e allo stesso tempo ingannevole. Ciò nonostante, non tutte le apparenze sono fuorvianti, e dal momento che l’aspetto è ciò che vediamo di qualcosa, si potrebbe pensare che rappresenti la realtà di questa cosa resa visibile. Possiamo allora cominciare a formulare due significati del termine apparenza:

  1. Nascondimento della realtà: per conoscere dobbiamo liberarci dell’apparenza, tra apparenza e realtà c’è opposizione e contrarietà (è la posizione ad es. di Parmenide o Platone)
  2. Rivelazione della realtà: per conoscere bisogna affidarsi all’apparenza, lasciarla appunto apparire, rapporto quindi di somiglianza o identità (soprattutto nella filosofia moderna con Hobbes per primo si riconosce esplicitamente il carattere reale dell’apparenza)

magritte1Da queste diverse attribuzioni del significato di apparenza scaturiscono altrettanti giudizi:

  • Negativo: apparire nel senso di mostrarsi agli altri per essere riconosciuti e accettati, fors’anche amati. Da qui il travestimento, la maschera per muoverci secondo mode o consuetudini che, seppur contrastano la nostra natura, ci fanno sentire più tranquilli e ben integrati nel nostro mondo.
  • Positivo: il mondo, naturale e artificiale, contiene molte cose che hanno tutte in comune il fatto di apparire e quindi sono destinate ad essere viste, udite, toccate, gustate, odorate. La parola “apparenza” non avrebbe alcun senso se non esistessero esseri ricettivi capaci di conoscere e reagire a ciò che non semplicemente c’è, ma appare loro. Non esiste soggetto che non sia insieme oggetto e appaia come tale a qualcun altro.

GattoSpecchio2Il problema, forse, è che l’identità di ognuno è percepita da una pluralità di soggetti/oggetti e da loro dipende, non solo, essa muta nel suo apparire, l’essere è attivo, crea le proprie apparenze e può in verità, ma non necessariamente, dissimulare la realtà. Insomma dal circolo non se ne esce, allora (come dice Aristotele) consideriamo neutrale l’apparenza ed esercitiamo il giudizio intellettuale che solo può certificare o confutare ogni singola apparenza, ma ricordiamoci anche che “Cercando di sembrare ciò che non siamo cessiamo di essere quel che siamo” (E. Junger).

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